Castro, gerlate di strame. Una testimonianza dialettale

Parlano Esterina Bolla-Martinoli e Lina Martinoli; intervista Mario Vicari

Questo brano, nella sua brevità, è ricco di spunti. Nelle vecchie stalle la lettiera delle bestie era formata da uno strato di fogliame, che ogni giorno veniva spazzato con gli escrementi e buttato nel letamaio. Dato che ora è sostituito da paglia o segatura di legno, sono divenuti superflui i tragitti faticosi e i litigi per lo strame, confinati di conseguenza nella memoria orale.

Tranne che nei mesi d’alpeggiatura, bisognava provvedersi di strame durante tutto l’anno. Da un lato, in autunno era prudente non indugiare nel farne scorte, per evitare di lasciarsi sorprendere da una nevicata precoce; dall’altro, non si poteva rifornirsi di grosse quantità, poiché le stalle – già di per sé piccole e spesso divise fra più proprietari – non erano provviste di vani per immagazzinarle.

Era quindi indispensabile approfittare delle condizioni meteorologiche propizie per fare incetta di ogni sorta di vegetali, tanto al piano, quanto ai monti. Lo strame del piano proveniva in generale dalle piante a foglie caduche e quello dei monti era costituito dagli aghi stratificati ai piedi delle conifere. Nella media e bassa Valle, era ai castagni che si guardava con maggior interesse. Per accrescerne il rendimento non solo in frutti ma anche in foglie, si usava addirittura concimarli. Secondo qualcuno, le foglie di castagno si prestavano meno bene per la lettiera che quelle di nocciolo o di ontano, perché, essendo piuttosto dure, stentano a sbriciolarsi. Ciononostante, i contadini ne erano gelosi, spronati dal bisogno. È significativa in proposito la testimonianza di Esterina Bolla, che accenna all’abitudine, nota ormai a pochissimi, di rizzare un riparo di rami attorno agli alberi per impedire al vento di disperderne le foglie.

Al bisogno si associava un’ossessiva preoccupazione di controllare fin dove si allargavano i rami della propria pianta. Infatti, prescindendo da chi non esitava a fare man bassa di foglie, taluni si ritenevano in pieno diritto di rastrellarle sotto ai loro rami, quando sconfinavano sui terreni altrui. E ciò dava origine a battibecchi a non finire…

Sulla fascia montana del versante destro della media Valle, si era autorizzati a raccogliere strame dal 1° novembre in poi. In quel periodo non era affatto eccezionale che ci si trovasse sul posto prima dell’alba, per accaparrarsi la zona migliore e per procacciarsi una buona riserva nell’imminenza dell’inverno.

Nei boschi di conifere sui monti fra Ponto Valentino e Prugiasco, si doveva badare di non lasciarsi sorprendere a compiere un’operazione vietata: quella di asportare le zolle con la zappa, rischiando così di sradicare i germogli e di danneggiare la corteccia delle radici. La necessità induceva però a eludere la sorveglianza dei forestali, ricorrendo a piccoli sotterfugi, come nascondere la zappa sul fondo della gerla o il prodotto raccolto sotto qualche pezzo di legno.

Questa vera e propria corsa allo strame era prerogativa delle donne, costrette a intercalare i viaggi con le pesanti gerle alle mansioni della stalla e alle faccende domestiche.

 

Traduzione

B. – Per quelle foglie erano poi accaniti, neh. Ti ricordi? Mah, io per prima, non che dico poi degli altri. Andavo sotto alla pianta, poi cominciavo a guardare dove arrivava il ramo!

Ti ricordi, tra il primo e il secondo fieno, andavano a fare le fracce [= ripari con rami]: le fracce, per fare che non potessero portargli via le foglie, cioè che il vento non potesse portargli via le foglie. Conficcavano nel terreno tutti questi rami: tutti, neh, dappertutto ne vedevi.

E poi, una volta, in giro alle piante di castagno – ti ricordi? – facevano una specie di cerchio [sottinteso: con sterpi e fogliame] e poi le concimavano.

Una volta, veh, dalla mattina di notte fino alla sera di notte eravamo a fare strame con la gerla in spalla, adesso… Eh.

Raccoglitore – E sui monti?

B. – Sui monti davano la fâura [= il permesso di raccolta nel bosco bandito].

Racccoglitore – Come funzionava?

M. – La fâura: eh, gli fissavano una data quando si poteva andare.

B. – … fissavano i giorni. Io lo so perché ero sui monti: mi alzavo di notte per andare con la pila per cercare il posto migliore per rastrellare, da…

M. – Facevano…

B. – La chiamavano la fâura. Eravamo ben sempre in movimento, neh.

 

Chiose

föia: ‘fogliame, strame’.
rädäsí: ‘secondo fieno’.
dumân: ‘mattina’.
sgérla: ‘gerla da fieno a stecche rade’.
fâura: ‘territorio, bosco bandito, in cui vengono limitati o vietati certi diritti’. Dal latino fabula racconto, favola’, nel significato di ‘patto, convenzione’. Indica il ‘bosco sacro’ in cui è vietato tagliare o raccogliere alcuni prodotti o è vietato raccoglierli in certi periodi al fine di preservare il bosco che protegge il villaggio da frane e valanghe e costituisce una riserva di risorse boschive.
in gagia: ‘in movimento’.

Da: Documenti orali della Svizzera italiana. Trascrizioni e analisi di testimonianze dialettali: 2 Valle di Blenio: seconda parte, a cura di Mario Vicari, Bellinzona, Ufficio cantonale dei musei – Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana, 1995, capitolo II.6.
Estratto dalla reg. 86.32 conservata presso l’Archivio delle fonti orali del Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona.

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