Roberto Donetta. Fieno, ombra, cenere.

Il giorno della Madonna d’agosto del 1932 l’Amelia si avvia di buonora verso Corzoneso, nel suo grembiule di cotonina. Ha appuntamento con la Rachele alla seconda cappella, quella delle Scale. Vanno su dal Rubertún. Arrivata alla prima cappella, si segna e tira il fiato. C’è profumo di fieno in giro stamattina, lo sente. Di solito non ci fa caso; una come lei, che la prima vacca l’ha munta a undici anni tra lacrime e sudore seduta a fatica sullo sgabello con un secchio attaccato al collo, non ha buon tempo per i profumi.
Guarda l’immagine della Vergine in trono, sulle ginocchia il bambino che mostra un cartello. Cosa c’è scritto? L’Amelia non ha mai decifrato quegli strani caratteri. Ora ha gli occhi freschi, è leggera come l’aria della domenica. Ha lasciato casa sua a Torre, dall’altra parte della valle. D’inverno lavora in fabbrica, d’estate in campagna: ma stamattina non ha voglia di portar fieno, basta, vuole andare con la Rachele a prendere le fotografie da quell’uomo su là. La mamma ha alzato la voce, da quando vai in fabbrica non sei più la stessa, “qua tu ghèi int in quéla crapa?” Ma lei ha alzato le spalle e se n’è andata.
Ora, per la prima volta, legge le parole sacre nella cappella: ma che faccia da grande ha il bambin Gesù!, in Paradiso sono tutti seri, si vede: “O ti che va per la via saluta la matre mia dicendo uno pater et una ave maria”. “Ti che tü sèi sü cun ra Madona, mi at disi sü un patergloria ma ti schivüm i cazott da mea mama”, risponde l’Amelia.
Torre, Grumo, Castro, Prugiasco, Comprovasco… Bello andare a spasso, come le signore di Lugano che vanno a Acquarossa a fare i bagni e a guardar le rascane: giganti sopra i prati, dietro le piode dei tetti. Adesso le pertiche cominciano a riempirsi dei covoni di segale che prendono il sole fino a ottobre, beati loro.
Le viene da cantare, stamattina. Alla cappella delle Scale si ferma: ecco in alto il bosco sacro, stalle e cascine, i dirupi fin dove si va a far fieno. Là, in fondo, il muso di cane del Sosto. Si ricorda di certe sere, quando nella stalla contano le storie del fantolino stregato che piange dall’ora del Pater dei morti all’Ave Maria. O di quello spilungone che fa la fisica e si trasforma in volpe. O della povera Candida precipitata nel burrone. E quando il vecchio dice la filastrocca

Zingo di zingo
Mi voglio maritar
Voglio sposar un orbo
Che sappia travaiar

tutti scoppiano a ridere.
Ora è cresciuta. Le è spuntato il seno, non va più in processione a far l’angioletto o la verginella. La primavera le ha portato un visigherio nuovo nel corpo, come la linfa che corre nelle piante e le fa fiorire. D’inverno va a lavorare alla Cima Norma. Ma quella fabbrica deve avere addosso la maledizione: portata via dal torrente in piena, è stata ricostruita e dopo qualche anno è scomparsa tra le fiamme. Ora però è risorta, è là che parla ai piedi della montagna.
L’Amelia è nata in tempo di guerra: tempo di calusia, il pane sa di sabbia e diventa subito duro, da spaccare con l’accetta. E le pare di trovare una nuova libertà, in fabbrica. Le pare. Perché, a parlar chiaro, è in prigione, seduta con berretta di tela bianca e grembiulone a incartar tavolette e fantasie per metterle nei plateaux, dopo che sono passate dentro la grande macchina. Dieci ore al dì. Pagata venticinque centesimi l’ora, magari arriverà ai trenta. La busta della paga deve portarla a pà e mama, non può neanche comprare un pezzo di tela per la scherpa, è vero. Però si sente più libera tra le sue compagne chine sui tavoloni, che non a casa: non ha voglia di star dietro a vacche e capre tutta la vita o attaccata alle padelle e al focolare! E, su all’alpe, faticare con la panagia del burro, perché la panna diventa dura come un piede. Non vuole diventare come sua madre, da mattina a sera a far strame con la gerla in spalla. Sempre meglio puzzare di cioccolato che di stalla. Sperando, però, che il principale ti metta al pliage e non al reparto cacao, dove alla fine della giornata si è tutte rosse di polvere come volpi…
L’Amelia vorrebbe tanto avere anche lei una foto del Rubertún, quel vagabondo di un sumenzatt sempre in giro per la valle con la cassetta delle sementi da una parte e il treppiede dall’altra. È un tipo strano, un originale. Selvatico come un tasso, va intorno anche di notte. Annota su un librone la vita dei papi, si dice in paese. La moglie l’ha piantato, lui e il suo gozzo che tenta di nascondere sotto il foulard; tutti lo sanno, è un marabiente, fa fatica a vivere e forse gli ha pisciato addosso l’allocco. Non solo la moglie, anche i figli l’hanno piantato ed è rimasto solo con il piccolo Saulle, ma guarda un po’ che nome da dare a una creatura… Però è un bell’omone, quegli occhi chiari e spiritati ti sfidano e fanno un po’ paura, ha i baffi spioventi e il fare del marronaio. È un po’ mago, va nelle case, si nasconde sotto un panno nero per la fotografia della prima comunione, del matrimonio, dei morti, delle processioni, delle feste. Che sia anche lui uno di quelli che fanno la fisica? La fotografia è una specie di magia e il Rubertún fa gli scherzi con la luce.
L’Amelia ha visto l’immagine di sua cugina, la Rachele: fa la Madonna tutta vestita di bianco, fascia di raso fino ai piedi, corona del rosario in mano e stelle sopra il velo, gli occhi rivolti al Padre del creato, quella sì è una fotografia! Lei, invece, il Rubertún l’ha ripresa da figlia di Maria con l’àncora di cartone in mano, e sulla veste a guardar bene si vede una processione, ma che razza di un pastrugno è? Lei vorrebbe essere come la Rachele. O come la Teresa, che lavora con lei in fabbrica e il Rubertún le ha fatto un ritratto con la gonna a righe, la fibbia alla cintura, il collarino, la spilla e la collana lunga, chissà chi gliel’ha imprestata. E sembra più bella di quella che è: una signora, con quel nido in testa. “Inscí sí”, pensa l’Amelia. Però senza la faccia da beccamorti di sua madre, lì seduta tutta nera vicino alla Teresa. No, la mamma non la vuole. Da sola: “O Madona o sciura”. Un vero ritratto. Per ricordarsi di com’è adesso, quando sarà più grande. Magari potrebbe farlo vedere al Rocco, l’operaio che in fabbrica la guarda con occhi profondi.
L’Amelia ci pensa, questa mattina di domenica. Quando arriva la cugina, si prendono a braccetto e via insieme fino al paese. Là in fondo, c’è Casserio, la casa rotonda, dove sta il Rubertún. Davanti alla parrocchiale le due ragazze si segnano. La prima messa è finita ed entrano in sacrestia a guardare il diavolo che trascina all’inferno per i capelli la donna svergognata. Nell’armadio, c’è un Cristo di legno con la testa che si muove: se dice di sì, vuol dire che il Rocco la sta pensando…
Arrivano alla casa rotonda. Bussano alla porta. Niente. Dove sarà? – Roberto!- “Cu sia mört, inscí da par lü cuma un orocch?” Ma no, sarà in giro lui e il suo cavalletto, nei paesi è arrivata la giostra americana con i draghi volanti. Sarà andato per processioni, battesimi, banchetti. O su alla Croce del Motarone, che dicono messa per la Madonna d’agosto. Però alla sua età dovrebbe fare attenzione a rampicarsi per i monti carico come un mulo. “U sará nacc a truvá sói prévad”…
L’Amelia trova una scala lì accanto e va su a guardare. Niente. C’è una sua immagine appesa al muro: eccolo là il Rubertún, ombrello sotto il braccio e due cassette con su scritto “Sementi fiori Blumen Samen Graines de fleurs”. Sotto si legge “Sementi dell’ortooo…” Se ne sta in piedi, davanti a una donna con tre fanti e la neve sotto alberi spogli.
L’Amelia sorride. Poi scrive un biglietto e lo infila sotto la soglia: “Già due volte siamo venute per cercarvi e non vi abbiamo trovato”.

“Sono io, Donetta Roberto fu Carlo. Ul sumenzatt. Ma chiamatemi fotografo, per favore. Perché l’arte mia è la fotografia. Sì, l’arte: ve lo dico in buon italiano, non sono uno zotico. Don Ganna mi ha passato giornali, libri, il Credente cattolico e gli Almanacchi. So tutte le date dei sommi pontefici, da San Pietro a Leone XIII. Adesso, qui al Ristorante del Ponte, ne bevo un mezzo, me lo sono ben guadagnato. È già tardi e non torno a casa, stasera. Il vino, un po’ fa andar via la memoria un po’ la fa tornare. Fa luccicare i quarzi nascosti tra i sassi.
Mio padre era negoziante a Biasca, farina di melgone, stoffa per materasso, refe e aghi, candele. Di tutto un po’, teneva, anche il Vangelo e il Buon Fanciullo. Poi è andato a Asti a vender marroni ed è morto là. Anch’io ho aperto un piccolo commercio a Castro. È durato poco, però. Ho provato anche a fare il cameriere a Londra e il marronaio in Italia, quelli della val di Blenio sono abituati a girare il mondo. Ma si vede che non sono fatto per servire. E in mezzo ai veleni di Londra certo non torno più.
Un po’ dopo i vent’anni mi sono sposato con la Linda. Mi aveva preso il cuore e abbiamo avuto sette fanti, ma la Marcellina è morta all’età di un anno. Morta, anche se la Linda subito dopo il parto era andata dal curato a farsi cacciar via gli spiriti cattivi. Gli altri? Mi hanno lasciato, tutti: la Giuseppina, il Celestino, l’Isidoro, la Brigida, il Clemente. Non vale la pena di sposarsi. È proprio vero: “Il bel maritarsi si fa in una sera, chi non ci pensa… è lunga la pena”.
E pensare che le volevo bene. Però doveva ubbidire, perché le donne devono stare sotto, questo si sa. Ce l’ho ancora quel ricordo dove siamo tutti insieme, quando lo guardo mi viene il magone. Ma un giorno lei ha preso su i suoi stracci per andare sotto padrone. Finché era a Personico, ci vedevamo un paio di volte all’anno. Poi in Francia. Via! Nei Pirenei! Addio moglie. Per un po’ mi è rimasto il Saulino, il suo vero nome è Saulle: sì, l’ho chiamato proprio così, come il re d’Israele che combatteva contro i Filistei e suonava l’arpa, non voglio che diventi uno zotico.
Lo so cosa dicono di me. Qualcuno ha anche dato fuoco a una stalla della mia famiglia. Quelli della casa comunale? Ve li raccomando, mi hanno rubato le macchine fotografiche e mi negano fin il sussidio dell’assistenza. Ma io ho fatto arrivare da Ginevra un altro apparecchio, di grande formato. Perché conosco l’arte e con le mie lastre di vetro mi vendico contro chi non mi vuol bene. Quelli della Grande Latteria Moderna e del comune: maledetti! Ve lo dico in buon italiano.
L’unico lavoro che mi piace è la fotografia, ma per vivere faccio frasche e vimini, vendo sementi: girasoli, viole del pensiero, garofani… carote, lattuga, cornichons petits de Paris, cicoria di Meaux, cipolle, finocchi… Fare il cameriere, no. Ho troppa nostalgia delle cose viventi, rose alpine, mirtilli e funghi. Allora ho scritto una bella lettera a quello di Lugano che mi voleva: “Entrando in servizio a primavera mi parrebbe di lasciare il bosco per rinchiudermi in gabbia”. A me la primavera mi fa l’effetto del vino.
Lo so cosa dicono di me: un vagabondo, un lazzarone senza amore per la famiglia, maltratta moglie e figli, fa la voce grossa, è pieno di debiti. Lo so. La Linda mi ha piantato, la Giuseppina è andata via a rimpinzarsi di bomboni e si firma Giuseppina per tutti, anche la Brigida mi ha tradito per un altro padrone; ma io le ho scritto una lettera in buon italiano, perché la disobbedienza, l’amore della libertà e dei piaceri sono le cose peggiori. La Grande Latteria Moderna di Bellinzona e quel tedescaccio di un Fry mi hanno rovinato.
Sì, sono un artista. Ho imparato l’arte dallo scultore Dionigi Sorgesa, mi noleggiava l’apparecchio fotografico per cinque franchi all’anno. Poi se n’è andato a Nizza. E un giorno è arrivata la notizia: l’avevano ammazzato, si dice per via di una donna.
Ho i debiti, è vero. Il comune mi ha mandato il precetto e al curato devo dei soldi. Ma non posso vivere sempre con questi pensieri di miseria e pagherò i miei debiti. Un po’ di pazienza. Adesso ho una bell’ordinazione di cartoline. La mia fotografia dell’alluvione è sul famoso Illustré, signori, e su un altro giornale d’in dentro potete vedere Marolta e la festa di Garina! Ho fatto anche il ritratto del Canevascini, quello che è giù in governo per i socialisti: un mangiapreti, a me non sono mai piaciute queste associazioni di fratellanza e mutuo soccorso e i sindacati, tutti imbrogli, dicono di favorire i proletari e invece ci fanno tutti poveri e disperati. Gente senza Dio. Però il Canevascini mi ha pagato subito.
Quando bevo un bicchiere di vino, mi vengono in mente quelle parole sul mio Registro: “La vita. È un sogno, una bolla di sapone, un vetro, un ghiaccio, un fiore, una favola; è fieno, ombra, cenere, è un punto, una voce, un suono, un Niente.” Stasera anche il mio vino sa di cenere. Sono stanco di andar su e giù con treppiede, obiettivi e cassette, vi dico. Non sono più un giovinotto. E poi tornare a casa, togliere la lastra allo scuro, immergerla nella bacinella, farla sgocciolare, fissarla… È questa la mia vera vita, certo; ma adesso sento che se ne va. C’è un’ombra che mi viene dietro dappertutto, tutta la giornata, verso sera si posa sulle mie spalle come un uccello di ghiaccio.
A farmi compagnia restano le immagini. Le ho in mente tutte, non ci credete? Nessuno me le può rubare, neanche quelli della casa comunale: la Clotilde con il cuore di cartone, l’Amelia con l’àncora, la Virginia che tiene la croce, tutt’e tre con la vesta lunga e sulla vesta dell’Amelia si vede sfilare la processione: questo è un mio errore, sicuro, due immagini una sopra l’altra; ma mi piace l’effetto che fa. Alle ragazze veniva un po’ da ridere con quegli arnesi in mano: che sono poi fede speranza e carità, se sapete la dottrina.
In questo momento mi viene incontro anche l’Innocentina sul letto di morte, forse è colpa dell’uccello posato sulla mia spalla. La donna tiene gli occhi aperti perché vive già nel mondo di là, ha il giglio tra le mani. Vedo ancora quegli occhi, l’Innocentina non ha avuto un granché da questa vita, non ha ricevuto la grazia neanche con cento novene, e così la tenevano come l’armenta della famiglia, la bovina da tiro: da noi quelle che non sanno continuare il fuoco sono povere donne. E allora adesso, forse, dalla parte di là l’Innocentina è più contenta.
Ecco, sotto il panno nero adesso inquadro lo sposalizio del Rocco e della Teresa con un gran velo, i parenti hanno tutti un po’ la faccia da funerale, però i fiori non mancano. I fiori e le foglie delle mie fotografie sono il giardino dei poveri.
Mi vengono in mente le mie lastre, il mio unico bene. Il gruppo dei Frusetta di Prugiasco: il Salvatore ha le pezze nelle brache, gliel’ho ben detto, ma lui aveva solo quelle. Li ho messi in fila sulle sedie, di fianco la Maria con lo sguardo pieno di disgrazia e la mano stortignata. Anche il vescovo ricordo, lustro come un pomo davanti alla canonica, una specie di scodella in testa. È un vescovo un po’ birbante, dicono, ma io non ci credo. E le suore dell’Ospedale erano soldati sotto la statua della Madonna, la padrona del cielo comanda tutto.
Stasera la mia mente è una lastra ai sali d’argento, ci sono su impresso anch’io, da fante: a primavera andavamo per le strette con il giravento e gli uccelli cantavano, la rosa di carta sul bastone girava girava, come adesso mi gira la testa. E in autunno col sambuco fabbricavo lo strifòll, questo ve lo dico in dialetto perché lo sento ancora zufolare…
Tra poco me ne vado, lo sento. Mi porto via tutti i miei tribuleri e così sia. Ma non avrò nessuno a farmi il ritratto sul letto di morte. Nessuno a tenermi la mano. Solo l’uccello di ghiaccio. E allora vi saluto in anticipo, Linda Pepina Doro Clement Brigida Saulín. Vi perdono. E voi salutatemi tutti, i vivi e i morti: l’Innocentina con gli occhi aperti in cielo; la Martina che ha nascosto l’aborto in una scatoletta e l’ha sepolto nell’orto; la vecchia portata a maggio su all’alpe nella gerla, seduta su un panchetto. Salutatemi i preti, i leccascodelle, i fanti scesi in città a vendere marroni. Perdono anche quelli che non hanno più voluto saperne di me; ma la Grande Latteria Moderna, no, quella non la perdono.
Vi lascio le mie lastre: trattatele bene, perché le fotografie profumano come il fieno d’estate, giocano con l’ombra e la luce, hanno il colore della cenere che ci accompagna nel mondo di là.”

Per la documentazione mi sono affidato a Maria Rosa Bozzini, alla quale va la mia gratitudine, e ai preziosi lavori di Carla Falconi-Martinoli e di Mario Vicari. Ringrazio il Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona per la revisione delle espressioni dialettali.

AUTORE
Alberto Nessi

PUBBLICAZIONE
Voce di Blenio

DATA DI PUBBLICAZIONE
01 Giugno 2011

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