Le malorose: voce di una levatrice ai tempi di Donetta

Il libro di Sara Catella (Casagrande, 2022) si legge in una notte. O in un pomeriggio. Sembra di assistere a un monologo teatrale: tutto si svolge in una stanza, in una voce unica. Quella di Caterina Capra, levatrice di Corzoneso, che nel mese di novembre del 1912 sta al capezzale del parroco del paese, don Antonio Bolgeri. Caterina prima timidamente, poi con sempre più coraggio, prende la parola. E dice. Chiede. Racconta. Si interroga. Dubita. Borbotta e si prende cura. Sente che qualcosa bolle dentro di lei e deve uscire.

«C’è un contrasto, tra l’uomo malato, zitto e fermo, costretto a letto, e lei. Lui che è abituato a stare sul pulpito e dichiarare, predicare, tuonare forse persino, in questa storia sta immobile e Caterina invece inizia a esprimersi per la prima volta nella sua vita, e lo fa con un’energia nuova», mi dice Sara Catella, autrice del riuscito romanzo. «Un altro contrasto che ho voluto creare è che lei, che per mestiere fa nascere i bambini, qui si trova ad accompagnare un morente; e poi siamo fra i paesaggi importanti della Valle di Blenio, ma tutto si svolge in una stanza chiusa».

Sara Catella ha la mamma di Olivone, e da piccola ha trascorso tutti i suoi momenti liberi in Valle. Ancora oggi ha zie, cugine, un legame stretto. «Per me la Valle di Blenio parla dialetto. La mia Caterina non poteva che esprimersi così», mi racconta quando le chiedo del tipo di lavoro che ha eseguito sulla lingua per il suo libro. «So che dentro ci sono anche altri dialetti, cognomi che a chi conosce le zone suoneranno più olivonesi che di Corzoneso. Ma difendo il fatto che non ho scritto un libro storico, non ho assunto un approccio scientifico, non l’ho fatto rileggere con l’idea di purificare il ‘dialetto giusto’. È così: la mia Caterina Capra parla una lingua sua, ricca e creativa, un italiano intriso di parole dialettali e dal sapore un po’ francese, perché gli emigranti riportavano e mischiavano, contaminando le lingue».

Come Sara Catella, ticinese, che vive a Berna, traduce dal francese, ha studiato a Bienne all’Istituto letterario svizzero.

L’autrice ama Roberto Donetta e proprio all’Archivio di Casa Rotonda ha trovato ispirazione. «Mi sono resa conto di quanto le persone vivessero una vita agra, dura. Le donne, soprattuto, mi hanno colpita. Ho cominciato a immaginarmi le loro storie, i loro pensieri, in quei momenti. Le ho unite tutte in una, Caterina Capra. E così è nato Le malorose. Confidenze di una levatrice. Ci sono dentro personaggi della mia infanzia, ci sono dentro anche io, in certi aspetti, e quello che mi immagino potessero pensare all’epoca le donne, certe donne».

È delicato, il libro di Sara Catella. Parla di un piccolo risveglio, lieve ma potente. Una donna abituata a credere e obbedire, che piano piano, grazie all’occasione di essere ascoltata, per una volta, si affaccia a una finestra nuova. E poi forse chi l’ascolta è poi solo lei stessa, perché Don Antonio chissà se sente qualcosa mentre lei gli cambia le lenzuola e gli parla. Il monologo è suddiviso in capitoli, tanti quanti sono i giorni in cui Caterina la levatrice accudisce il malato terminale. «C’è un piccolo crescendo di presa di coscienza», racconta ancora l’autrice. «All’inizio lei è molto titubante di fronte al corpo dell’uomo che deve toccare. È timida, perché lui è maschio e perché è il parroco. Non osa dirgli molto, ma poi prende coraggio, giorno dopo giorno, e si scopre arrabbiata. Gli racconta delle miserie dei poveri, delle famiglie, delle donne, delle partorienti. Cose che dovrebbe sapere, ma non sa. Perché ci trattate così? Perché non ci spiegate, non ci rispettate? A volte addirittura le scappa il tu. E poi si insinua, in modo solo abbozzato, semplice, una certa incrinatura nel suo rapporto con la fede. Dice: Ho pregato tutta la mia vita e adèss non capisco più niente. Credo che il cielo è sempre blu, ma è così lontano per noialtre».

AUTORE
Sara Rossi Guidicelli

PUBBLICAZIONE
Rivista 3valli

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