Leontica e la pozza del Felice

‘La pozza del Felice’ è il nuovo bellissimo romanzo di Fabio Andina ambientato in Valle di Blenio

Alzarsi alle cinque e un quarto del mattino, in pieno inverno, salire alla pozza con il Felice, spaccare il ghiaccio al buio e fare il bagno mentre nevica. Poi aspettare il sole, scendere di nuovo in paese, riposare sul fieno, bere il latte caldo appena munto. Ma chi te lo fa fare? Questo libro, La pozza del Felice, è l’unica risposta possibile a questa domanda. Fabio Andina non poteva spiegarlo in due parole, e neanche in una pagina sola; doveva raccontare in un romanzo i suoi giorni trascorsi con il Felice e con la sua gente, a vivere un po’ come lui, insieme agli altri, a Leontica. Il libro, edito da Rubbettino edizioni, usa lo stile della montagna, una lingua asciutta, scattante, a tratti poetica. Una lingua che assomiglia al protagonista, il Felice appunto, un uomo di novant’anni con una vita misteriosa alle spalle: un viaggio in Russia in gioventù, un matrimonio finito bruscamente e senza figli, una vecchiaia di poche parole e tanta saggezza. E con l’abitudine di iniziare la giornata con il rito del bagno nella pozza sopra al paese…

«Ci sei già stato sul Simano? gli domando allacciandomi gli scarponi. Forse non mi ha sentito, mi avvicino. È lì bagnato, immobile come il tronco di una pianta, ancora con gli occhi puntati sulla vetta della montagna. Che si fa via via più scura mentre il sole le sale da dietro. Poi, quando il primo raggio fa capolino, un lungo brivido scuote il corpo del Felice. Non si direbbe per il freddo, non ha la pelle d’oca. Brrr, fa, sorridendo, e tirando il fiato. Poi dice aè, ci son be’ già stato su una qualche volta, sorride ancora».

Fabio Andina ha vissuto davvero a Leontica, per tre anni. Ma la zona la conosceva già da prima, fin da bambino, perché i suoi genitori avevano una cascina proprio a Leontica, quella chiamata ‘il caseificio’. In un periodo in cui aveva bisogno di silenzio, di pace, di rapporti sicuri con gente solida come quella del villaggio, si è stabilito lassù e poi gli è venuto in mente di scriverne. Scrittore e poeta lo era già, ma il lavoro scaturito dal suo soggiorno prolungato a Leontica sembra un reportage letterario racchiuso dentro alla struttura di un romanzo. «Per me scrivere significa prima di tutto osservare, ascoltare. Mi sono messo lì come una mosca che guarda, sente e influisce poco sul contesto in cui si trova. Il personaggio che mi rappresenta, quello che va e chiede al Felice di passare più tempo insieme per vedere come vive, non dà giudizi, parla poco, di lui non si accorge quasi nessuno…». Questo libro è nato in quel periodo, una decina di anni fa. Poi è stato limato, fatto decantare, limato ancora, asciugato nelle sue frasi e nei suoi aggettivi, messo di nuovo a riposo. È diventato minimalista, essenziale, come quella vita fatta di yogurt, formaggio, una polenta ogni tanto, una mela. Tutto preparato con calma, consumato consapevolmente dal Felice.

«C’è serenità in queste quattro mura. C’è silenzio fra noi. Non dobbiamo dirci nulla. La giornata sta per spegnersi. Mi chiedo se domani il Felice sarà ancora disposto ad avermi come ospite. Esce e torna con tre pezzi di legno e li depone da parte alla Sarina. Da sotto la cucina economica recupera la pentola dal coperchio forato da dove tira fuori una palettina di ferro. Apre lo sportello della Sarina e riversa nella pentola un po’ di tizzoni ardenti. Infine, ravviva il fuoco, chiude lo sportello e sale le strette e ripide sale con la pentola, un po’ fumante dai fori del coperchio. Lo seguo. Senza accendere la luce della sua camera da letto, alza le coperte, c’infila sotto la pentola, poi scende di sotto. Ora il Felice è seduto immobile. Ha l’aria stanca. Sbadiglia e me lo attacca, così sbadigliamo assieme. Lo guardo ma non so cosa dirgli. Rivedo i gesti che fa prima di andare a letto, le sue abitudini, nella sua solitudine. Con tanti silenzi e tanti vuoti resta molto tempo per pensare. Chissà cosa sta pensando il Felice. Fuori un cane abbaia, e abbaia ancora finché si sente la maestra Sabina gridare citu Bobi, e lo zittisce. E poi c’è ancora il silenzio. Si sente giusto il crepitio della legna che brucia. Sposta la sedia di fronte alla Sarina, apre lo sportello e rimane lì, così, a fissare il fuoco come si fissa la televisione. Lo guardo, e vedo un uomo di novant’anni che ha appena trascorso un’altra giornata uguale a tante altre, ma così piena e unica. Piena e unica. All’ennesimo sbadiglio chiude lo sportello e si alza e mi dice che va a letto. Allora gli domando se domani mattina ci rivediamo. Se la batteria non mi si scarica stanotte, allora ci vediamo domani. Se no amen, mi risponde, prima di sparire nel buio delle scale. Spengo la luce e vado a casa.»

Alcuni passaggi del libro sono veri, dice l’autore. Ci sono personaggi inventati e altri che vivono davvero qui o altrove. Tutto è romanzato, ma per scriverlo, ci è voluta la realtà. «Parlo di un posto che non è in città. Per me è Leontica, perché è lì che sono stato, ma credo che anche un leventinese riconosca i suoi posti, un grigionese, un calabrese, insomma chiunque in ogni parte del mondo sappia cosa è l’ambiente di un paese. Il mio metodo è stare in silenzio, ascoltare, osservare dettagli e sottigliezze; poi quando ho gli occhi pieni, vado a casa, apro il rubinetto della mente e riverso tutto quanto su un foglio». Proprio come un reporter che si avvicina a quello che gli interessa, si china su una realtà vivace, ma che ha bisogno di lentezza per essere scoperta, una realtà che ha bisogno di vicinanza, di qualcuno che si fermi e stia lì a viverci per un po’, chiacchierando, facendo l’orto, giocando a scopa la sera in bettola…

Un romanzo riuscito, che parla a tutti noi e alla nostra voglia di libertà.

AUTORE
Sara Rossi Guidicelli

PUBBLICAZIONE
Rivista 3valli

DATA DI PUBBLICAZIONE
01 Febbraio 2019

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