Selvatici

Il 25 ottobre 2025 l’Atg, Associazione ticinese giornalismo, ha premiato questo articolo uscito sulla Rivista 3valli.
Racconta della caccia e del nostro territorio…

 

Quando sono partita mi ero detta ‘Spero che la caccia vada male e che si torni a mani vuote’ (non me ne vogliano i cacciatori!), quando son tornata ho dichiarato ‘Non ho mai vissuto una cosa così vera!’. Certo, la caccia è andata bene – che per me significa anche essere sopravvissuta, ma non si tratta solo di questo. Sono stata risucchiata in un ambiente completamente estraneo per 12 ore, eppure mi sembra di essere partita per un viaggio esotico! In Val di Blenio poi, una sorta di patria di adozione per me.

Quando mi propongono di salire già la sera in baita per conoscerci e per vivere meglio l’esperienza, io non so nemmeno cosa aspettarmi. Dico di sì di getto, con quell’impulsività che fa fare le cose senza pensare. Nei giorni precedenti poche comunicazioni via whatsapp, una posizione e sommarie indicazioni. È come se naturalmente debba scoprire da sola cosa mi aspetta. Zaino essenziale, kit di sopravvivenza, farmacia che non si sa mai, una giacca a vento, e tante frasi che ronzano nella testa ‘Ce la farò ad assistere a una cosa simile? Gli animali! Come mi devo vestire? E se poi qualcuno mi spara? Ma se mi viene una crisi di panico?’ Tutte frasi che a distanza di giorni e con il bagaglio di un’esperienza da novellina mi volto indietro e con sdegno mi dico, ‘pfffff ma figurati, quante storie!’. Manco avessi preso la patente di caccia – due anni di studio in fauna, selvaggina, armi, eviscerazioni e malattie e tre esami, giusto a titolo informativo.

Salgo in auto verso l’alpe un po’ timorosa per la strada di montagna. È l’imbrunire, il buio arriva dal basso come un’onda che risucchia e io mi trovo da sola in quei magici boschi. Protetta dalla carrozzeria ma con la certezza di vedere prima o poi sbucare un lupo da dietro un tronco. Arrivo alla posizione che la mappa mi indica precisamente sul cellulare come la casa dove Vito mi ha lasciato le chiavi nascoste. Apro la porta e mi sento… Biancaneve! Sono arrivata nel rifugio dove invece dei sette nani vivono quattro cacciatori, che adesso ovviamente sono ancora appostati. Vabbè, sono sopravvissuta alla strada di notte e non ho ancora incontrato il lupo e quindi mi merito una bella boccata di aria fuori dalla porta in questo luogo magicamente diperso… ‘Ciao, buonasera!’ tuona uno e io salto su me stessa dallo spavento: di fronte a me il primo dei quattro, mimetica e fucile, sembra un soldato e invece è un ragazzo che è appena tornato a casa dopo giorni di selva. Affamato e sorridente mi invita a entrare, di nuovo, accende la radio, mi fa sentire a casa, il che è tutto dire. Alla spicciolata dopo di lui anche gli altri, sono in tre e poi quattro e io mi sento minuscola e totalmente fuori posto ma a poco a poco mi accolgono nel gruppo e mi sento a mio agio. Dialetto stretto bleniese, in padella quel che credo sia solo fegato (ma poi scoprirò quando l’avrò tra il piatto e la pancia che sarà cuore… ho mangiato un cuore!) e l’acqua calda per la paschta voncia (il nome parla da sé, ma non è di sicuro in grado di descrivere la bontà di questa macaronade al formaggio), caldi benvenuti e accendo il registratore. Sono Vito De Leoni detto anche Papà caccia, e non per nulla, Carlo Broggi, suo secondo, e migliore amico, Felice Von Will, giovanissimo futuro pilota d’elicotteri, e Fabrizio ‘Bicio’ Maestrani, un guardiacaccia che ha mollato la divisa per fare il cacciatore: ecco l’équipe al completo. Tra un aneddoto e l’altro – che raccontano più tra di loro che a me, ma che alle mie orecchie compone un avvincente romanzo quasi pastorale – scopro che per Vito la caccia è una vocazione. Una passione sin da bambino, quando guardava il nonno prendere gli uccelli con le trappole per topi. In realtà l’unico in famiglia a essere sbagliato, come dice lui. Sbagliato? Sì, matto. Ha sentito il richiamo alla natura e ha risposto, e dopo patente e tanti anni di caccia solitaria, ecco fondare questo gruppo compatto di amici e colleghi, i Largario Hunters, che ci dice anche la provenienza. Un tatuaggio sulla gamba li contraddistingue: marchiando sulla coscia mirino e i baffoni inconfondibili di Vito, colui che ha dato il via al gruppo e che oltre che papà, sembra un maestro, sono decisamente indivisibili.

Ma cosa ha di speciale il mondo venatorio? L’idea che ci facciamo tutti è quella di predatori armati di fucile che senza pietà sparano ad animali indifesi. Questo accade, sì, ma in realtà si tratta di persone con un amore per la natura incredibile, che vivono per alcune settimane l’anno a stretto contatto coi boschi e i loro abitanti, che conoscono a menadito, e che hanno un rispetto per il mondo selvatico oltre ogni sospetto. L’animale si caccia perché venga mangiato, ed è sacrilegio uccidere ‘per niente’. In un mondo in cui il massiccio consumo di carne va a nutrire gli allevamenti intensivi e viceversa, causando danni ambientali irreversibili, questa pratica risulta quasi anacronistica e sì, certo più nobile. Chi scrive non è vegetariana e forse per questa ragione ho accettato di trascorrere queste ore coi cacciatori: bando all’ipocrisia, se mangi i salametti di cervo e la sella di capriolo potrai anche assistere alla giornata del camoscio domani. Ero convinta che sarei tornata a casa asserendo con fierezza ‘non mangerò mai più un animale!’ e invece… quello che mi porto è stupore e meraviglia per un’alba in alta montagna e visioni oltre la realtà.

Dopo una serata passata ad assorbire entusiasmi e frustrazioni, racconti e spiegazioni su regole ferree e una legislazione che non dà tregua ma fermamente rispettata, e dopo sole due ore di sonno, eccomi pronta a salire con le mie guide verso la Gana Franca. Siamo in tre: io, Vito e Carlo. Bicio farà il giro dal lato opposto, Felice invece sarà altrove. È notte. All’alpe le mucche sono tutte fuori compatte e marroni, pronte, illuminate da un faro, nel cielo una mezza luna indica la strada da percorrere e noi in silenzio ci addentriamo per cespugli. Fa freddo e io stringo i pugni per l’agitazione e per la temperatura. Camminiamo uno dietro l’altro, io in mezzo, ho paura, mi proteggono e mi fido.

Più saliamo, più il cielo si rischiara. Ci fermiamo ad ammirare il crinale, aspettando di vedere qualche movimento. Sono entrata volente o nolente a far parte del gioco e questa avventura ormai concerne anche me. Cerco con lo sguardo e divento quasi predatore anche se non vedo nulla e questo mi rassicura. Non è solo miopia, è anche inesperienza, e forse anche che non voglio proprio scorgere.

Salendo, le lepri bianche ci correvano attorno. È stato uno spettacolo incredibile e quasi mitico, tutto sembra carico di una simbologia che forse però sono l’unica a vedere. Come la marmotta che ho ammirato al rientro, la mia prima marmotta (grazie Vito!). Una visione epifanica.

In realtà è tutto molto concreto. Si tratta di camminare, acquattarsi tra i cespugli, osservare nel silenzio il crinale che abbiamo di fronte, attendere. Poi spostarsi ancora, avvicinarsi. Sperare di essere gli unici in questo bosco, e sapere che non è così.

«L’anno scorso mentre ero in postazione, con l’arrivo dell’alba mi sono trovato di fronte due lupi», mi ha raccontato ieri sera Carlo. La mia grande paura. «Non ti fanno niente, tu stai ferma», facile a dirsi. Se ci sono i lupi, comunque, è probabile che non ci siano i camosci.

Poi lo avvistano, è in cima alla cresta. Ha scavallato e ora sta lì, ci avviciniamo… Carlo e Vito si confrontano, misurano la distanza, cercano di capire. Ho imparato nella notte trascorsa che non si può sparare a più di 250 m di distanza, e che si può prendere una sola bestia per persona. Sapevo già delle madri e dei cuccioli, ma scopro anche che, per i cervi, una femmina presa vale due maschi, e questo mi fa sorridere.

«In realtà la caccia serve», me l’hanno detto solo per alleggerirsi la coscienza? «No, ci sono tantissimi cervi, troppi, la caccia regola la loro presenza, salvaguarda l’agricoltura». Il mestiere del cacciatore è cosa seria, e se io pensavo che poi si divertissero a sparare non è così. «Io spero sempre che l’animale mi si pari davanti all’improvviso, così non ho tempo per pensare». Perché? «A pensare poi ti emozioni». L’unico con il sangue freddo sembra Vito, che afferma di riuscire entrare in una sorta di concentrazione vuota, mirata, senza lasciar spazio alle vibrazioni. «Per gli altri spesso non è così. Trema la mano, ci si trova di fronte a un animale e non è così facile sparare». Insomma un’umanità che io non credevo di trovare qui.

Hanno mai avuto paura? Felice ieri sera mi ha raccontato che sì, una volta tornando di notte nel bosco sentiva risuonare i richiami dei camosci. Mi ha fatto vedere un video, sembravano spiriti. I cacciatori la sera cantano e si fanno coraggio. Si congratulano e pensano alle belle bestie che hanno preso. «Ieri ho sparato e credevo che il cervo fosse scappato, Vito al telefono mi ha intimato di star lì e cercarlo finché non lo trovavo, non si lascia un animale morto nel bosco». Il recupero è difficile, spesso a piedi, a volte con elicotteri. «Ti ricordi quando qualche anno fa non volavano e abbiamo dovuto fare tutto a piedi?».

Questa volta lo vediamo, lo vedono, in cima al crinale, aspettano che scenda, che si avvicini, ci avviciniamo anche noi riducendo la distanza che ci separa. Tutto è carico di tensione. Mi distraggo un attimo e compare il fucile, la preda è abbastanza vicina per poter essere presa. Io sono sospesa in uno stato di semicoscienza eppure anche molto lucida, è strano da spiegare.

Uno sparo, terribile, frastornante, che mi rimbomba dentro. Il tempo di riprendere fiato. E poi lo vedo. Rotola per la valle. Non è bello. Attorno a me religioso silenzio, stupore, incredulità comunque, e quasi un grazie a questa montagna che oggi ha donato un frutto. Mi esortano ad andare a vedere l’animale, caduto vicino a un torrente e quindi facile all’eviscerazione. Dalla quale ovviamente mi tengo alla larga perché un conto è sentirsi parte di questa avventura un conto averci il fegato.

Tornando ho avuto le formiche alle mani per ore. Quando ho mollato i pugni il sangue ha preso a circolare e mi sono resa conto di trovarmi in un luogo incredibile: è facile da quassù sentire una sorta di potere magico. Non tanto di prevaricazione sull’animale (cosa che lo so, di fatto avviene) ma di comunione con quanto ci circonda. Vito e Carlo sono felici, soprattutto Vito: «Che bello essere riuscito a farti vedere com’è». Per lui era importante prendere il camoscio oggi, questa esperienza andava vissuta fino in fondo. Ed è vero così. Va bene così. E poi era importante mi piacesse, per loro, era importante ne vedessi quel qualcosa che avviene ‘che altrimenti non sai’. ‘È andata bene!’ e lo penso anche io. Non tanto per il bellissimo animale preso, che comunque mi ha spaccato il cuore. È andata che ho osservato e vissuto da vicino un rito di avvicinamento e fusione naturale. Ho osservato l’uomo inselvatichirsi.

Non credo che tornerò a caccia, sicuramente tornerò a Gana Franca perché il mondo visto da lì è puro e risponde a leggi molto più limpide e semplici. E certamente, d’ora in avanti, avrò una riverenza diversa, molto più grata, rispetto alla selvaggina e al mondo venatorio, tra piatto e pancia, e cuore.

AUTORE
Valentina Grignoli

PUBBLICAZIONE
Rivista 3valli

DATA DI PUBBLICAZIONE
01 Ottobre 2023

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