Il mago d’Arabia e la campana di Tezzeghino

Leggenda raccolta da Rocco Degiorgi e pubblicata nel libro Il Meraviglioso, Armando Dadò Editore

Il paesello di Tezzeghino si adagiava fra prati e campetti di segale, di canapa e di granturco, circondato da fitti castani e noci dai frutti copiosi e provvidenziali fra Lottigna e Grumo in Valle di Blenio; se ne stava lì, con le sue case di legno, i suoi abitanti non numerosi, con un suo parroco e la sua chiesetta, l’unico vestigio rimasto ai nostri giorni dell’infelice paese, sepolto da una frana staccatasi dal monte e scesa fino a ostruire, per alcuni mesi, il corso del Brenno formando un lago che retrocedeva fino alla gola del Grumascio, e del quale il Pozz Sfondrò, che tuttora esiste, dev’essere l’ultimo relitto.
Una sera di febbraio di alcuni secoli fa, giunse a quel villaggio un personaggio strano, cavalcando un morello focoso, tutto nervi e dagli occhi che gettavano fiamme. Era un ometto smilzo, con una barbetta grigia a due punte e folte sopracciglia, che sporgevano di sotto un turbante orientale di sera verde, sormontato da penne di struzzo; il busto era chiuso in un giubbetto di cuoio rosso con bottoni d’argento, e aveva un pugnale inguainato, infilzato di sghembo sotto la cintura ricamata, di marocchino, sostegno degli ampi calzoni di lana nera, che s’affondavano negli stivali lucidi, a punta rivolta in su, come la prua delle gondole veneziane.
Dalla sella pendeva una scimitarra dall’impugnatura arabescata, e dietro un capace sacco di cuoio bruno. Chiese ostello alla prima casa che incontrò, e una stalla per la sua cavalcatura, facendosi intendere, più che con le parole, con i gesti. E, per non essere preso per un mendicante o un imbroglione, porse a Barba Plazi, che lo aveva accolto sull’uscio, alcune monete milanesi di argento brillante. Disse che veniva da lontano, dall’Arabia Felice ed era diretto in Allemagna. Disse che aveva sostato a Milano, dove gli avevano indicato il Lucomagno come il valico più breve e più facile per raggiungere la sua meta, ma che si era poi accorto che la primavera milanese in Valle di Blenio era ancora lontana, con la neve che giungeva alle ginocchia degli uomini e quindi il valico sarebbe stato transitabile solo fra qualche mese. Per questo, rimase ospite gradito di Barba Plazi fino ai primi di maggio, allietando le veglie serali dei buoni villici con i racconti favolosi delle Mille e una notte. Ma presto si accorse, e gli pareva strano, che se squilli di campane giungevano da una parte e dall’altra della valle, sulla chiesetta di Tezzeghino, da un campaniletto non più alto d’un fumaiolo, pendeva bensì una campana, ma sempre muta e senza richiamo. Mentre la sera al tramonto, quando si accendevano le prime lucerne, e la mattina ai chicchirichì dei galli, saliva sul tetto della chiesa e si appostava vicino al campanile un uomo, a turno nelle famiglie, e lanciava ai quattro venti le lugubri note di un “cuccurucù…” imitando il lamento notturno degli allocchi, numerosi in quel castagneto; una specie di Muezzin mussulmano piombato in piena cristianità ambrosiana. Il Barba Iscariota, decano del paese, spiegò all’ometto dalla barba gemella il perché di quella strana abitudine.
Raccontò dunque come tanti e tanti anni prima, quando era ancora bambino, officiava la parrocchia di Tezzeghino un certo don Ruffillo, forestiero, venuto di Toscana per fervore evangelico o mandato in esilio dal suo vescovo perché sospettato, a torto o a ragione, di eresie; seguace forse delle massime del compatriota senese Bernardino Ochino [predicatore della tolleranza religiosa], che riparò anche lui, prima di arrischiare il rogo, nel paese dei Grigioni. Don Ruffillo scomparve poi senza accomiatarsi dai parrocchiani, portandosi via, per di più, un calice d’oro zecchino tempestato di perle, di pregevole oreficeria francese, che quei di Tezzeghino non avrebbero ceduto a nessun prezzo. Non si sentì mai più parlare di lui, se non che nell’esecrazione dei gabbati parrocchiani.
Ma alcuni giorni dopo, s’abbatté sul Simano un violento temporale, e un fulmine colpì la campanella di Tezzeghino, rendendola fessa e muta per sempre. «Castigo divino per il sacrilegio diabolico di don Ruffillo», sentenziò il vecchione. E da allora Tezzeghino non ebbe più un parroco stabile, ma solo un officiante in sostituzione, o un economo spirituale, come dicono adesso in termine canonico più pomposo. E in quell’anno era ancora il vecchio cappellano di Grumo, don Agnello Masina di Ghirone, che per le sue benemerenze, e la lunga cura d’anime, fu anche fatto patrizio, con diritto di estensione e successione a suo nipote Epifanio che gli gestiva l’azienda agricola del Beneficio ecclesiastico, come si usava una volta e fino al principio del nostro secolo [Novecento]; ultimo fu don Andrea Frigerio per quel di Campo.
Il pellegrino d’Arabia, alcuni giorni dopo, tornato sull’argomento in un crocchio di uomini, vecchi e giovani, si offerse di dare alla campana la sua voce serena di una volta, senza pretendere compenso, ma per sola gratitudine della cordiale ospitalità avuta e che volgeva ormai alla fine, perché i susini aprivano già le prime gemme alla fioritura. Basta che seguissero per filo e per segno quanto avrebbe ordinato.
Il sabato seguente, dopo che aveva letto la notte, negli astri, l’oroscopo favorevole, fece levare la campane e la fece portare sotto il grande noce, dove si accese un gran fuoco, con legna secca d’abete e larice, imbevuta di resina. Poi, tolto il battaglio, la fece mettere fra le fiamme, che lambivano i primi rami del vetusto albero. Il mago, scrupoloso seguace del Corano anche nel cerimoniale, ora si avvicinava e ora si allontanava dal braciere con le palme protese e lo sguardo incantato volto al cielo, in contemplazione, e cantava in falsetto certe orazioni incomprensibili, ma che finivano tutte con il ritornello “Allah! Allah! Allah”. Poi fece scavare una buca interrandovi la campanella arroventata, ordinando di lasciarla in pace fino alla luna nuova.
Quando venne dissotterrata dinnanzi agli occhi scrutatori dell’arabo, fu riportata sul campaniletto e, riattaccatole il battaglio, la Marcellina, come l’avevano battezzata gli avi, mandò per aria i suoi squilli argentini nella dolce nota del primitivo diesis che le aveva infuso l’impareggiabile fonditore varesotto. Per tutto il giorno, fino alle prime ombre, gli abitanti di Tezzeghino, grandi e piccoli, si sbizzarrirono a suonare a festa.
Tutti dicevano di non aver mai udito fino ad allora una tale celeste melodia. E il vecchio Iscariota si godeva con fanciullesca commozione quell’armonia, rediviva dopo ottant’anni, piangendo di tenerezza come per il ritorno di un perduto amore.
Qualche giorno dopo, l’ometto dalla barba gemella, raccolte le sua cose, vestito di tutto punto come qunado era venuto, salutò i suoi amici di Tezzeghino, rifiutando sdegnosamente ogni compenso che gli volevano dare a ringraziamento per quella miracolosa operazione. Inforcò il suo focoso morello agitando la scimitarra, sfoderata in segno di saluto e di augurio, e gridando, già di lontano: «Non dimenticate il mago d’Arabia e siate grati a Allah e al suo Profeta…».
Spronò la sua cavalcatura incontro al vento favonio di settentrione. Né mai ricomparve più a Tezzeghino, dove però rimase sempre il ricordo del beneficio ricevuto ogni volta che la campanella salutava la Vergine e invitava alla preghiera dei cristiani. Continuò a suonare per anni e anni, dopo che il nonagenaio Iscariota, e il Barba Plazi e don Agnello erano passati a miglior vita; e dopo ancora che i bimbi in fasce di allora erano divenuti decrepiti e morti anch’essi da un pezzo. Suona sempre, a festa e a morto, con voce di canto, con voce di piante; sempre così, come aveva voluto che facesse il buon mago d’Arabia.

Fotografie

Oscar Bulloni

Bibliografia

Il Meraviglioso. Leggende, fiabe e favole ticinesi. Vol. 4, a cura di Domenico Bonini, Sandro Bottani, Amleto Pedroli, Roberto Ritter, Franco Zambelloni. Armando Dadò Edizioni 1993.

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