Incontro con Valerio Lazzeri

Considerazioni su Dio, sull’amore, su quello che le Tre Valli ambrosiane hanno da offrire alla Chiesa

Quante domande si vorrebbero fare a una persona aperta e colta come è il nostro vescovo, teologo e insegnante. Entrare nel palazzo vescovile di Lugano, essere ricevuti in una saletta piena di libri, stare in poltrona a sentire da Valerio Lazzeri come lui si rapporta con la fede, con il suo nuovo ruolo di vescovo e con la sua valle originaria, la Valle di Blenio, è stata un’emozione indicibile.
A ogni domanda rispondeva in maniera inattesa, chiara, intelligente e nuovissima per qualcuno che di questa materia ne sa poco come me.
Quando il Vescovo Valerio Lazzeri parlava, a me sembrava che stendesse al sole lenzuola pulite di bucato.

Lei è un uomo di valle. Che cosa rappresenta per lei la montagna?
Ci sono nato, ho sempre visto montagne intorno a me. Queste pareti che circondano chi nasce in Valle, credo portino a percorsi più interiori, a cercare le radici profonde delle proprie convinzioni. Forse chi è cresciuto con ampi orizzonti davanti agli occhi è maggiormente indotto a portare i suoi pensieri a ciò che c’è fuori, mentre noi tendiamo a cercare dentro.

Se fosse rimasto in Valle, che cosa avrebbe fatto secondo lei?
Non lo so… Quando ero piccolo sognavo una vita tranquilla, di preghiera e riflessione, desideravo scrivere, meditare, raccogliermi. Volevo una vita semplice, come dice Roland Barthes, ‘senza troppi avvenimenti’. E invece eccomi qui: il Signore mi ha ascoltato e poi, come sempre, ha visto più di quello che vedevo io e mi ha spronato a tirare fuori da me stesso risorse e potenzialità che non avrei mai immaginato presenti nella mia persona. Decisamente, bisogna lasciarsi sorprendere!

Che cosa è quella vocazione di cui si parla, la chiamata che porta qualcuno a scegliere la strada religiosa?
Non uso spesso, né senza precauzioni questo linguaggio. Mi sembra fuorviante. Sembrerebbe indicare che Dio ha messo su di noi un’etichetta fin dalla nascita, ‘prete’, ‘contadino’, ‘giornalista’ e poi che un giorno, il giorno della chiamata, ci riveli che cosa aveva in serbo per noi. Penso che le cose siano più complesse. Noi siamo un pensiero di amore uscito dal cuore di Dio e di fatto non siamo mai separati da Lui un solo istante. La vocazione di fatto è la vita umana assunta come un’avventura a due, che ha delle tappe di chiarificazione, ma che continuiamo a ‘inventare’ insieme al Signore.

Che cosa è per lei l’amore, in tutti i significati che lei dà a questa parola?
Parlare di amore per un cristiano è sempre e contemporaneamente imbarazzante e inevitabile. Già i primi discepoli di Gesù, al momento di mettere per scritto la loro esperienza nel greco del Nuovo Testamento, hanno avuto questa difficoltà: dovevano trovare un nome per definire l’esperienza dell’incontro con Gesù Cristo e istintivamente si sono rivolti al vocabolario dell’amore umano per trovare la parola più adatta. Alla fine hanno scelto la parola agape, che era di per sé la più generica, la meno definita, in maniera da poterla usare senza troppi fraintendimenti per esprimere un tipo di amore assolutamente inedito, mai sperimentato in precedenza e riconosciuto solo nella relazione personale con Gesù di Nazaret. Forse, il significato che più andrebbe messo in luce potrebbe essere quello di ‘amore incondizionato’, perché è questa l’esperienza che hanno vissuto e che vive ogni cristiano: scoprire di essere amato da Dio, da sempre e per sempre, gratuitamente, non a partire da requisiti previ, amato solo perché esiste. L’amore per me è essenzialmente una scoperta, ma questo non significa passività: Dio ci ama per primo; in Gesù conosciamo la verità di questo amore, oltre ogni possibile contraffazione, ma da qui scaturisce un dinamismo che permette anche agli esseri umani, alle creature che noi siamo, di amare in verità.

Il modello di un Cristiano è Gesù, Maestro di bontà, purezza, altruismo. Come può un uomo, con tutte le sue debolezze confrontarsi con tale perfezione?
Ecco, questo è il più grande fraintendimento che minaccia il Cristianesimo e, a mio avviso, la causa di tanto ateismo. Se riduciamo Gesù a un modello di perfezione, ci sentiamo soffocare. Se pensiamo di dovergli assomigliare, sforzandoci di essere migliori e credendo di sapere che cosa è il bene, possiamo incorrere in gravi pericoli. Per esempio possiamo dimenticarci dell’altro, di quello che non ce la fa a essere migliore. Dio non ci chiede di elevarci a lui; al contrario, è sceso egli stesso sulla terra e si è messo accanto ai più deboli, ai ladri, alle prostitute, agli odiati esattori delle tasse per conto dei Romani, i cosiddetti pubblicani. Non si è presentato a loro come un modello, ma si è messo nei panni degli esclusi, ha lavato loro i piedi e ha vissuto con essi. E loro hanno capito subito che questa era la buona novella perché nessuno gli aveva mai dato un amore così, come dicevo prima, incondizionato. Pensare di poter essere migliori senza fare questa esperienza, finisce per renderci prigionieri di un orgoglio mortifero quando ci illudiamo di esservi riusciti o di una devastante sensazione di fallimento quando ci accorgiamo di non farcela e di non avere nessuna possibilità di riuscirci.

Se fosse un padre di famiglia di un paese di valle, come vorrebbe che fosse il parroco?
Una volta il parroco condivideva la vita del villaggio, viveva vicino agli altri, faceva il fieno come tutti, coltivava la vite, aveva una mucca anche lui, magari andava a caccia… Allora era fondamentale per dare una consolazione e una speranza alla gente del paese. Oggi è diverso, non si può più quello stesso tipo di prossimità. Penso però che continuerei ad aspettarmi che mi parli di Gesù con la sua umanità, che continui a rendere udibile e credibile per quanto può quel racconto che ha attraversato i secoli. Così potrebbe aiutarmi a dare un senso alla mia vita. Tra le fatiche e la complessità del quotidiano, quello che più manca oggi è la carica di senso, sono gli elementi simbolici che ci fanno guardare oltre la banalità della nostra vita di tutti i giorni. Un parroco dovrebbe dunque portarci la testimonianza che la vita umana è possibile, che vivere non è un’impresa fuori della nostra portata. Dovrebbe darci il segnale che Dio sta con gli uomini e che con loro sta bene.

Com’è la sua giornata da vescovo?
Le mie giornate si stanno rivelando sorprendenti e molto piene, anche se cerco di custodire un certo ritmo di fondo. Mi alzo alle 5.30 per la preghiera del mattino, poi celebro l’eucarestia e faccio colazione. Vado nel mio studio, apro la posta, comincio a rispondere, leggo i giornali, studio i dossier delle questioni più importanti della Diocesi; preparo le omelie, gli interventi, mi confronto con colleghi e altre persone per ascoltare vari pareri prima di prendere le mie decisioni… Cerco di tenere gli incontri per il pomeriggio e lo studio per la mattina, ma spesso ci sono gli imprevisti. Inoltre è importante per me avere una giornata, da mezzogiorno di un giorno fino al giorno successivo, in cui ‘sparisco dalla circolazione’, per leggere, pregare, studiare senza né telefonate né contatti.

Nel mondo ci sono tante religioni diverse. Questo la rende contento o preferirebbe che fossero tutti cattolici?
(ride, poi risponde) Gesù dice ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra»; io mi immaginerei difficilmente di vivere in una saliera… A parte la battuta, devo dire che noi Cristiani siamo sorpresi dall’incontro inaudito che abbiamo avuto con Gesù; siamo colmati nel nostro desiderio più folle, quello di vivere per sempre, e ci portiamo il fuoco dentro per averlo scoperto, fuoco che non possiamo contenere. Ecco perché abbiamo voglia di comunicarlo. Però attenzione! Questo non significa che ci sia stata data una visione definitiva di come dovrebbe essere il mondo. Purtroppo in passato si è pensato che la missione fosse abolire le diverse religioni. Io conosco quello che il Signore mi ha messo nel cuore… per gli altri non posso sapere che cosa ha pensato. Io so che i Cristiani portano dentro di sé qualche cosa che tutti vorrebbero, ma non ho idea di quando gli altri scopriranno questa bellezza: posso solo fare in modo che ciò possa succedere senza troppi impedimenti. Dire che la nostra religione è migliore sarebbe pericoloso, perché bisognerebbe essere al di sopra di tutto e nessuno di noi lo è. Una cosa è certa: l’incontro con altri modi di essere religiosi è importante, perché non c’è niente di più utile per sapere chi si è, che incontrare l’altro.

Ha un messaggio per i lettori della Rivista 3valli?
Le Tre Valli hanno una caratteristica: sono ambrosiane, quindi storicamente legate alla Diocesi di Milano. Questo ha lasciato tracce nel modo di essere cristiani, anche se ora lo si vede molto meno che in passato. Il contatto con Milano ha portato un’apertura e una vivacità culturale maggiore di quello che succede di solito alle zone lontane dai grandi centri. Appartenendo a Milano, la gente aveva una consapevolezza maggiore della sua ricchezza religiosa e spirituale; i preti ambrosiani hanno avuto in passato qualche possibilità in più di studiare, di andare via e tornare. Questo ha favorito lo sviluppo di una sensibilità particolare, un senso di appartenenza più forte che ha dato dei frutti di cultura, di iniziative sociali – ospedali, scuole, cinema, storia locale – che vale la pena ricordare. Oggi le cose sono molto cambiate, ma rimangono belle testimonianze da cui dovremmo imparare. Non dovremmo poi mancare di rileggere i segni lasciati sul territorio, andare al Negrentino di Prugiasco, a San Pietro a Biasca, a San Nicolao a Giornico…

Alla fine ci congediamo e le ultime parole del Vescovo Valerio Lazzeri sono: «Mi saluti la Valle di Blenio!». E qui lo riferisco.

AUTORE
Sara Rossi Guidicelli

PUBBLICAZIONE
Rivista 3Valli

DATA DI PUBBLICAZIONE
01 Febbraio 2014

Nessun commento

Lascia un commento